I diritti delle piante

Riflessioni dopo la lettura di Flower Power


Da poco abbiamo accolto in casa un cucciolo di gatto. Dopo la nostra richiesta di adozione, la volontaria dell’associazione che l’aveva in affido, Amelia, si è presa la briga di venire a Milano dalla provincia di Varese, senza gattino, al solo scopo di conoscerci. Ha visitato la casa, ci ha fatto domande, ci ha dato informazioni utili al benessere del cucciolo, e poi ha accettato di affidarcelo a patto che mettessimo in sicurezza il balcone. «I gatti atterrano sempre in piedi», si dice, ma una caduta dal terzo piano può essere molto pericolosa, se non letale.

Dei diritti degli animali non c’è ancora un vero riconoscimento internazionale – anche se esiste una “Dichiarazione universale dei diritti dell’animale”, firmata nella sede Unesco di Parigi già dal 1978 –, ma pochi di noi ne metterebbero oggi in discussione l’esistenza. Non ci sogneremmo mai – si spera – di disporre di un animale come di un qualsiasi oggetto di nostra proprietà. Per questo il comportamento di Amelia ci è sembrato del tutto naturale, se non doveroso per chi si prende cura di esseri viventi. Ma penseremmo la stessa cosa se si fosse trattato di una pianta?

I diritti non sono «naturali», né «assoluti», ma «sono espressione di una società e le società si evolvono nel tempo … Maturano insieme alla consapevolezza diffusa della loro necessità». Quale può essere questa necessità? Alessandra Viola, autrice di Flower Power, fa notare che il riconoscimento di diritti ha spesso un carattere «riparatore». Quelli del fanciullo sono stati sanciti dopo le violenze della Prima guerra mondiale, quelli di tutti gli uomini dopo la Seconda. Almeno in teoria, «perché per i diritti delle donne e quelli dei neri si è poi dovuto lottare ancora a lungo, e per quelli Lgbt – per fare un altro esempio – c’è ancora molta strada da fare». E di cosa dovremmo risarcire le piante? Be’, gli esempi possono essere infiniti, dal geranio buttato nell’immondizia dopo la fine della fioritura fino alle deforestazioni massive a scopi commerciali, passando per l’«Agente arancio», il defoliante che l’esercito americano versava sulle foreste vietnamite per snidare i Viet Cong. «Siamo in guerra con una vera e propria nazione, composta da esseri viventi che per quanto diversi da noi condividono un modo di vivere, un’organizzazione sociale e degli scopi» scrive Viola. Nelle guerre si piangono i caduti umani, molto raramente quelli di altre specie animali, mai quelli del regno vegetale. E perché si dovrebbe? Cos’abbiamo in comune noi con le piante?

Si potrebbe rispondere che da loro dipende la sopravvivenza di tutti gli animali – compreso l’uomo. Che senza il loro ossigeno, senza la regolazione da parte loro di molti processi climatici e atmosferici, senza il “miracolo” della trasformazione di elementi inorganici in materia organica, fonte di tutta la catena alimentare, il nostro mondo sarebbe un tantino meno ospitale. Insomma, ci si potrebbe appellare a ragioni meramente utilitaristiche, antropocentriche. Ma Viola segue una strada più interessante: le piante hanno «il diritto di avere diritti» perché sono come noi.

Ma come? Non vorrete dirmi che le piante possono provare le mie stesse emozioni, il mio stesso dolore? O che possono manifestarmi amore come il mio cane o il mio gatto? Non possiamo (ancora) affermarlo, e ci sono ovviamente tantissime altre differenze tra animali e piante, differenze che la nostra cultura mette bene in evidenza (stanzialità contro movimento, lentezza contro velocità, diversità di struttura, assenza di sistema nervoso centrale, scale temporali diverse etc.). Ma dimentichiamo sempre di osservare le macroscopiche somiglianze: la nascita, la morte, la crescita, la respirazione, la capacità di riconoscere altri esseri viventi e di comunicare con loro, la riproduzione, solo per fare qualche esempio “macroscopico”. A livello “microscopico”, le somiglianze sono ancora maggiori. Questo perché abbiamo un parente in comune, un esserino vissuto probabilmente 4,5 miliardi di anni fa e che ha dato origine al continuum di cui fanno parte tutti gli esseri viventi della Terra. Neanche tutto questo, però, servirebbe. Basterebbe constatare che, come gli altri soggetti già titolari di diritti, le piante hanno «un fine in sé». «La ricerca ha dimostrato da decenni che le piante hanno una fisiologia in grado di supportare una complessa attività mentale. Sono esseri viventi attivi, auto-organizzati, con una intensa vita sociale e in continua interazione con l’ambiente». Sono cioè, come noi, esseri senzienti.

È vero che non hanno un naso, «ma è anche vero che ne hanno invece migliaia, sotto forma di recettori posti sulla superficie delle cellule». Con essi “annusano” moltissime molecole volatili, che usano anche per comunicare. Come negli animali, l’olfatto è collegato al gusto, tramite recettori che le radici usano per trovare sostanze chimiche nel suolo, distinguendo «ciò che è appetitoso da ciò che non lo è». Che “vedano” la luce, poi, è fuori discussione, grazie a milioni di fotorecettori su tutte le parti verdi, ma vi sorprenderete a leggere della Boquilla trifoliata,che imita la forma, il colore e la consistenza delle foglie della pianta su cui di volta in volta cresce, o del fagiolo del Perù, che in una stanza vuota si slancia inequivocabilmente nella direzione di un palo posto a una certa distanza, per potercisi arrampicare. Hanno il senso del tatto (avete mai provato a toccare una Mimosa pudica?) e quello dell’udito. Dell’udito, sì, e sembrano apprezzare le frequenze tra i 100 e i 500 Hz – d’altronde che crescano meglio quando gli si parla è un’esperienza riportata da molti appassionati di piante. Dunque hanno cinque sensi, proprio come noi? Macché, i sensi delle piante sono almeno una ventina: misurano gravità, umidità, campi elettromagnetici… rassegniamoci, non potremo mai competere! Il motivo è semplice: non potendo spostarsi, hanno puntato tutto sulla sensibilità. Alla stanzialità è dovuta anche la loro peculiare organizzazione orizzontale, opposta a quella gerarchica degli animali: «si sono evolute con una struttura modulare e reiterata prevedendo di poter essere predate dagli animali». Ognuno di questi moduli è potenzialmente in grado di dare luogo a una nuova pianta. Sarà per questo che le piante costituiscono circa l’ottantatré percento di biomassa della terra?

Non sappiamo se sono in grado di provare dolore, ma quando subiscono un danno l’informazione è sicuramente trasmessa a tutto l’organismo nel giro di qualche minuto. Sono persino in grado di avvertire le piante circostanti e alcune possono reagire richiamando insetti antagonisti, producendo sostanze neuroattive o rendendo le proprie foglie tossiche o indigeribili per i potenziali predatori. Insomma, è chiaro che cerchino in ogni modo di far cessare quel danno. Nel dubbio che provino dolore o no, sarebbe senz’altro cosa saggia adottare un principio di precauzione.

Alessandra Viola, con piglio leggero, appassionato e competente, ci racconta di battaglie individuali e collettive – come quella dei Maori Whanganui in difesa dell’omonimo fiume – per la tutela di alberi o interi ecosistemi, ci accompagna nel viaggio del pensiero che grazie a molti attivisti e filosofi è approdato oggi alla consapevolezza che anche alle nostre compagne verdi sia da riconoscere una dignità in sé e non solo in funzione dell’utilità che hanno per noi umani. D’altronde, non bisogna inventarsi niente di nuovo: «molte popolazioni autoctone dei cinque continenti, come i Whanganui, non concepiscono la separazione fra uomo e natura tipica delle economie più sviluppate e continuano a considerarsi parte di un tutto, senza alcuno speciale diritto di prevaricare gli altri esseri viventi».

Alla fine, prendendo a modello precedenti carte simili, l’autrice si spinge fino a stilare una possibile “Dichiarazione dei diritti delle piante”, pur consapevole che si tratti «di un esercizio senza alcuna pretesa di validità giuridica o di completezza, utile però per immaginare quali potrebbero essere e come potrebbero essere formulati» tali diritti. Non ve li sveliamo, per non anticiparvi niente e soprattutto perché crediamo sia meglio arrivarci dopo aver seguito fino in fondo il ragionamento.

Vi anticipiamo però che l’autrice risponde anche a possibili domande che molto probabilmente vi starete facendo anche voi. Alcuni esempi: ma quindi, se le piante avranno dei diritti, cosa mangeremo? È legittimo continuare a tenerle in vaso? Le potature o le tecniche bonsaistiche si possono considerare torture? Le risposte tengono sempre conto di un principio di buon senso: «il diritto delle piante alla vita, come tutti i diritti, non è assoluto». Bisogna sempre “pesare” i diritti e cercare il compromesso migliore per ridurre il grado di violenza. Un esempio su tutti: «Un’alimentazione a base di vegetali è il modo più etico per garantire la loro sopravvivenza, in base alla semplice considerazione che produrre un chilo di carne richiede circa milleseicento chili di piante e quindicimila litri d’acqua».

E tenere piante in casa? È etico? Ko au te awa. Ko te awa ko au. «Io sono il fiume. Il fiume è me». Questo detto Whanganui ci sembra un buon modo per rispondere in modo indiretto a domande tanto complesse. Le argomentazioni contenute nel libro e l’enunciazione dei diritti delle piante sono riuscite a modificare il nostro modo di guardare le piante e saranno sicuramente di ispirazione per arricchire di consapevolezza e attenzione il nostro lavoro.

Il nostro nuovo gattino l’abbiamo chiamato Boogie. Dare un nome proprio per noi umani significa riconoscere al suo portatore una dignità intrinseca, una continuità tra il suo esistere e il nostro. Neanche Boogie ha deciso di abitare a casa nostra, ma ci siamo impegnati a garantirgli benessere e affetto, che lui sembra ricambiare con fusa e testatine. Non ci sarebbe bisogno di dare un nome anche alle nostre piante – ma dai racconti dei nostri clienti sappiamo di non essere i soli! –, però possiamo prestare attenzione alle loro manifestazioni. Anche le piante hanno esigenze ben definite e danno inequivocabili segni di benessere o malessere. Quando ne adottiamo una, facciamo in modo di sapere quali sono, e teniamo sempre a mente i loro diritti.

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